Intervista a Massimiliano Colombi: #testimoni
Il testimone e protagonista dell’intervista che vi proponiamo oggi è Massimiliano Colombi, nostro consulente da molti anni. Accompagna le organizzazioni sociali nello sviluppo di processi innovativi e nella progettazione e realizzazione di interventi formativi. Ha maturato una lunga esperienza di sviluppo organizzativo e di supervisione delle professioni sociali in diversi contesti del pubblico e del privato impegnati sulle frontiere del welfare municipale e territoriale.
Una particolare attenzione è dedicata al ripensamento dello sviluppo urbano delle piccole e medie città italiane attraverso una logica di ricerca-intervento in grado di promuovere processi di partecipazione. Insegna presso L’Istituto Teologico Marchigiano e collabora con il Centro di ricerca WWELL dell’Università Cattolica di Milano.
Massimiliano abbiamo molto lavorato insieme, negli ultimi anni, sul concetto di fiducia e su come fare lavoro sociale abbia a che fare con la costruzione di concetti di fiducia. Cosa cambia rispetto a questa traccia di lavoro, attraverso l’impatto con l’emergenza coronavirus?
Voglio anzitutto condividere la parola chiave sulla quale sto cercando di porre attenzione ed è quella del “durante”. Questa idea del pre-covid e del post-covid è una trappola gigante rispetto al punto di vista da assumere. Per due motivi: quando sapremo di essere davvero nel post-covid? Stiamo scoprendo che la fase 2 è molto simile alla fase 1 e gli scienziati ci stanno dicendo che non sappiamo le tappe con un calendario certo per il ripristino della situazione. Il cartello “è finita” che tutti stiamo attendendo in realtà appartiene ad un delirio di onnipotenza infinito.
Quando sei su un terreno sconosciuto e non disponi di mappe, ma hai solo una bussola non conosci il punto di arrivo; quindi espressioni come “stai in mezzo al guado” non sono giuste in quanto non sappiamo a che punto siamo del guado. Sappiamo solo di essere nel guado e a questo ci dobbiamo conformare.
L’altro aspetto del “durante” è che intanto noi continuiamo a vivere, non siamo in una condizione di sospensione. Quindi ciò che ci sta accadendo non è una parentesi: non è un tempo della nostra vita che possiamo buttarci alle spalle o dentro un cassetto.
Possiamo in questo senso riprendere l’immagine che ci offre Ivo Lizzola e che è quella dell’esodo. In questa immagine ci viene spiegato che siamo in esodo già da almeno 20 anni, cercando nuovi approdi e nuove vie. L’immagine dell’esodo è quindi quella delle grandi migrazioni dei popoli degli indiani d’America che migravano dietro ai bisonti e quando di inverno si fermavano essi continuavano comunque a vivere dentro le condizioni che si trovavano di fronte in quel momento. La stessa cosa è successa quando ci siamo trovati di fronte al terremoto: dopo di esso la vita è continuata dentro un contesto che nel frattempo era mutato. Quindi nella metafora dell’esodo ci troveremo in un paesaggio dove alcune terre saranno le solite, altre saranno un poco modificate e altre ancora saranno completamente nuove: dovremo un poco diventare degli esploratori.
Ribadisco che l’idea del prima e del dopo appartiene a una sorta di delirio di onnipotenza che non corrisponde a quello che sta davvero succedendo. Si tratta quindi di avere fiducia nell’esodo.
A questo punto ci soccorre il concetto di carovana. Perché in questo virus abbiamo visto chiaramente la dimensione dell’interdipendenza e del fatto che siamo tutti legati gli uni agli altri. Quindi non siamo soli, ma siamo legati in una vicenda condivisa. Con il beneficio che questa condivisione comporta, ma anche con il senso di responsabilità e di vincolo che ne consegue. Dobbiamo farci carico anche di altri.
La strada quindi è da ricercare. E questo per me è un elemento liberante. Se anche gli scienziati si dichiarano in un sistema di conoscenza probabilistica, per noi operatori sociali, che di fragilità e di incertezza ci occupiamo per ruolo, si tratta di una situazione consona.
Quindi se sei insieme puoi ricercare e lo puoi fare tramite due passaggi: puoi buttare via quello che non serve più; e puoi avere la fiducia di ritrovare l’essenziale. L’esodo non è un viaggio per tornare a casa, ma è un viaggio verso una nuova casa. Da cui ancora una volta, la necessità di uscire dalla trappola del ripristino. Dobbiamo smettere di credere alla favola del ricostruire dov’era e com’era, come abbiamo dichiarato con il terremoto. Una logica di ripristino che suppone un’ipotesi di controllo totale.
In questo caso fiducia significa accettare la mancanza e la impossibilità del controllo: la costruzione condivisa di una nuova casa da tirare su insieme. Ne consegue che mai come adesso abbiamo bisogno di tornare sul tema della fiducia e solo questa ci fa uscire dalle trappole. Trappole anche giustificate dall’ansia e dal timore. Ma che dobbiamo necessariamente superare.
E allora Massimiliano, cosa significa dentro questa emergenza, fare lavoro sociale?
La logica del sociale è quasi evaporata in questo periodo. Ci sono due monopoli: la scienza medica che sarà attenuata nei prossimi mesi dalla scienza legale (le cause che giungeranno alla fine dell’emergenza). I medici presto da eroi diverranno imputati. E dall’altra parte tutta la dimensione politica e giurisdizionale della gestione normativa dell’emergenza.
L’ottica sociale ha quindi necessità di rimettersi in gioco. Il tema è, relazioni e legami ai tempi del covid. Relazioni e distanziamento. Avere un approccio debole è un vantaggio, da una parte, ma è complicato adesso rientrare in gioco.
Quindi l’operatore sociale è spesso colui che deve continuare a vedersi anche stando a casa. Cercando di capire con creatività cosa ci sia permesso fare anche in questa fase. Ma il tema è quanta sofferenza si stia generando in questo periodo. Quanta sofferenza anche non tematizzata e alla quale spesso nemmeno corrispondono dei servizi. Un’area complicata da gestire in quanto crescente e nuova. E si tratta di una categoria intergenerazionale in quanto coinvolge i giovani come anche gli anziani. Pensiamo alla solitudine dei giovani come un tema assolutamente nuovo con il quale dobbiamo in qualche modo misurarci.
Molto del sociale non sarà possibile mantenerlo nella forma alla quale eravamo abituati. Pensiamo alla questione di come gestiamo i minori lasciati a casa dai genitori che devono tornare al lavoro mentre la scuola non riparte. Esiste un tema di servizi educativi mai così urgenti, mai così ricercati e necessari, ma mai così difficili da realizzare e con bilanci dei comuni probabilmente in grande crisi. Come mettere insieme disponibilità inedite di scuola, volontari, educatori etc. cercando di costruire nuovi spazi di connessione e sperimentazione comunitaria?
Possiamo costruire pezzi di welfare aziendale, pezzi di politiche territoriali, connessioni con fondi non spesi della scuola, singole persone disposte generalmente a rimettersi in gioco. Serve un’organizzazione in grado di dare un ordine a tutti questi pezzi e connetterli. L’altro scenario sarà il tema del non-lavoro dell’occupazione: arriverà il momento in cui non saranno più fermi i licenziamenti. A questo proposito, immagino che dentro il progetto SPRAR ci siano delle competenze in merito all’accompagnamento di percorsi incerti, ricerca di lavoro, ricerca di una casa, accompagnamento sanitario, che nel prossimo futuro potrebbero essere una palestra importante. Oggi serve un progetto SPRAR per coloro che incapperanno in questi percorsi storti.
Sui Comuni c’è questa prima ondata dei voucher per la spesa che al momento è una gestione principalmente burocratica. Ma da essa discendono liste e contatti. C’è un mondo in quei contatti ed è un mondo che dobbiamo in qualche modo conoscere perché lì c’è tutta una mappa di bisogno da conoscere. Che significa passare da una gestione burocratica ad una gestione sociale del contatto? Come nelle fasi seguenti di questa vicenda proveremo a gestire tale diffuso sistema del bisogno? Che tipo di persone sono queste?
C’è quindi un pericolo di tornare ad una logica pienamente assistenziale. Però c’è anche un pezzo di comunità che forse nemmeno conosciamo e conoscevamo. Nel senso che alcune di queste persone erano già in difficoltà prima e stentavano a manifestarsi, cercavano di rimanere nell’ombra.
Un’altra questione da vedere è quella che attiene alla domiciliarità. Non è vero che tutto è fermo, ma si tratta di un intervento che rispetto a prima è cambiato e che va ricompreso. Tra poco si tratterà anche di ripensare la residenzialità.
Nel frattempo è scattata l’idea che sia giunto il momento di porre mano a tutte quelle riforme che rinviamo da anni: riforma del fisco; riforma del welfare; riforma della sanità… e c’è una quantità di proposte di riforma. E nel frattempo è sorto il tema dell’incertezza. Come anche il tema della sofferenza. Quindi siamo sicuramente al di fuori della retorica dell’”andrà tutto bene”, la quale corrisponde ad un infantilistico approccio alla difficile situazione che stiamo attraversando; si tratta invece di prendere atto di questa sofferenza e di farsene carico.
Il discorso è di assumere una dimensione di lavoro di comunità che si ponga la questione di come la comunità stessa si faccia carico di queste sofferenze. Di come aiuta a sostenere il carico di situazioni anche estremamente pesanti in cui c’è gente che ha perso non solo lavoro e condizione sociale, ma anche persone e affetti. Su questo versante occorre incarnare un lavoro di comunità vero e significativo, che diviene carburante del nuovo lavoro sociale.
Quindi Massimiliano, si pongono due temi dal nostro punto di vista, rispetto ai quali ti sollecitiamo a dire che tipo di apprendimento e di reazione devono dimostrare le imprese sociali. I due temi sono quelli del coraggio e della sperimentazione, che ci sembrano essere due parole chiave perché le imprese sociali non si lascino schiacciare dal timore per i fatturati che mancano, ma tornino a costruire un ruolo sociale di risposta alla sofferenza delle persone.
Il rischio è che la parola sociale sta lì perché ci occupiamo semplicemente di sociale. È invece fondamentale porsi anche una questione di processo sociale, di costruzione degli oggetti del sociale. Il nostro funzionamento fino a che punto è davvero sociale? Quindi non solo ciò che produciamo ha a che fare con il sociale, anzi l’ipotesi è che non esiste alcun oggetto sociale se non viene prodotto dentro un processo sociale; non ci sarà alcun operatore che accoglie se non si sente davvero accolto dentro l’organizzazione nella quale svolge la propria attività. Non posso gestire accoglienza dentro un meccanismo nel quale sono solo un ingranaggio. Se l’organizzazione non costruisce accoglienza reciproca tra i suoi operatori non può essere efficace.
Quindi gli operatori dell’impresa sociale sono anche mamme e babbi: li guardo anche come tali oppure solo come detentori di competenze tecniche finalizzate al lavoro sociale? Mi pongo questioni relative al loro essere persone preoccupate e in ansia in relazione alla loro sofferenza individuale e alle vicende personali o me ne disinteresso? Se invece faccio delle riunioni in cui tutto è conseguenza di formule matematiche e organizzative ormai consolidate e fisse, ma che non incontrano la vita dei miei stessi operatori, allora diviene difficile essere portatori di una reale condizione dell’operare sociale.
Questo meccanismo è evidente all’interno di alcune associazioni che mi capita di osservare: queste, nella fase di emergenza e del lavoro on-line hanno visto saltare alcuni meccanismi. Nella piattaforma on-line lo scambio è divenuto orizzontale e sono saltati i ruoli piramidali; i presidenti abituati ai luoghi ufficiali del loro ruolo, hanno avuto difficoltà ad esserci e a riconoscere tale tipo di scambio. Ne deriva che un’impresa davvero sociale è quella che parte dalla dimensione di padri e madri o di persone in difficoltà o con timore per la propria esistenza e per il proprio futuro, dei propri operatori e che si pone anzitutto il problema di dare una risposta a questi.
Aprire un luogo di condivisione dei timori di coloro che sono coinvolti in dinamiche di sofferenza e timore personale, all’interno della propria organizzazione è la migliore garanzia possibile di predisporsi al meglio per offrire delle risposte, in seguito, alla più generale comunità.
Quindi, le organizzazioni sono incastrate sui ruoli, oppure aprono spazi nuovi di socialità e di partecipazione? Quindi, un’impresa pretende di essere sociale solo in uscita, senza invece mettere in discussione proprio i funzionamenti sociali che la caratterizzano? Oggi un’impresa non può dirsi davvero sociale se non diventa competente nell’affinare il radar per le sofferenze, le incertezze, le paure e forse anche la nuova creatività dei soggetti che la compongono?
Questo per me è un punto decisivo. Dopodiché si pone la questione se le persone hanno voglia o si sentono sufficientemente accolte e protette per portare a condivisione incertezze e paure. Vale a dire che non basta allestire i luoghi.
La terza dimensione del lavoro sociale che sta dentro il tema dello sperimentare riguarda la parola chiave dell’incertezza. E su questo è necessaria la postura data dal verbo fronteggiare. Una postura che significa stare pienamente immersi nella realtà e al tempo stesso costruire senso e conoscenza nel mentre stai in questa condizione di immersione. C’è un autore, Daniel Innerarity, che interveniva alcuni anni fa rispetto al tema di come la politica sarà riconosciuta e diceva che saranno riconosciuti coloro che saranno stati lì con te a fronteggiare a farsi carico dell’incertezza e delle difficoltà della situazione. Stare di fronte. Non solo agli eventi, ma anche tra persone. Fronteggiare non solo oppositivo, ma anche fare fronte comune. Volgere gli sguardi insieme per affrontare in qualche modo le difficoltà che la realtà ci propone.
La domanda che lui ci pone è: ci sei? Una provocazione che molte organizzazioni basate sul chi sei, quanto conti, quanto vali? fanno fatica a sostenere. Perché si tratta di una logica centrata sul posso contare su di te? Mi vedi? Sei davvero al mio fianco? Quindi sociale oggi è davvero questa postura del fronteggiamento. Quanto riusciremo ad apprendere dall’esperienza? Non so bene cosa cambierà e cosa rimarrà. Ma credo che la domanda vera sia come conoscere ciò che cambia e come difendere ciò che riteniamo prezioso debba permanere. Non c’è solo una questione di adattamento a ciò che giunge, perché potrebbe anche sorgere un tema che violenta il mio sistema di significati.
Questa cosa del fronteggiare fa riconoscere la competenza di chi sta presso: di chi è in condizione di presidiare la prossimità. Tale questione per certi versi va anche a ridefinire le gerarchie dentro le organizzazioni. Il tema è, chi è capace di fronteggiare e il passo in avanti è come apprendere dall’esperienza. Facciamo l’esempio della domiciliare che esce a passeggiare con i suoi utenti: questa passeggiata se vado a parlare con l’operatore che l’ha fatta, mi fa scoprire nuovi valori. Un’impresa sociale è tale se produce conoscenza sociale valorizzando gli elementi di conoscenza che si vengono in questa fase a produrre; le percezioni dell’operatore addetto al fronteggiamento. Concretamente sarebbe interessante intervistare quella famiglia che dopo 50 giorni s’è vista arrivare l’operatore; e come l’operatore si è predisposto per questo nuovo incontro; e che tipo di sapore ha avuto quell’incontro, quella passeggiata. Sarebbe un materiale vitale che ti consente di vedere cosa è fronteggiamento in quel momento facendoti osservare delle micro-direzioni. Quali luoghi del sostegno l’impresa sociale allestisce per i propri operatori? Come le organizzazioni si occupano delle proprie persone?
Altrimenti se non apriamo questi canali significa che stiamo sempre dentro la norma. Quella passeggiata invece è un durante che è un piccolo anticipo di futuro. Quindi il futuro non si dice ma si fa e al tempo stesso è vero che camminando si apre cammino. Niente succede e succederà all’improvviso e dovremo saper leggere i segnali di questo durante per capire cosa sta effettivamente cambiando e che tipo di risposte stiamo agendo.
C’è sempre una necessità di orientamenti. Ma insieme a questi abbiamo anche bisogno di direzioni e queste le trovi quando metti insieme gli orientamenti con il contesto. Quindi un’impresa sociale ha la chance di prendere i suoi orientamenti ma deve farli agire dentro il contesto e servono per questo dei passi. Occorre cioè un’organizzazione che mette insieme più punti di vista e più racconti. E in una fase più incerta occorre rischiare dei passi, occorre mettere in campo delle scelte.
L’ultima questione è che l’impresa sociale per essere tale deve mettere in conto anche il fallimento. Deve esserci anche una ipotesi programmatica di fallimento. Perché se non lo fai ne consegue che non rischi. Devi rischiare dei passi ed è l’unica possibilità che hai: puoi mettere in conto un fallimento. E lo puoi fare meglio se hai alle spalle una organizzazione. Non devi porti in una dinamica di rendita di posizione. La preoccupazione è che chi amministra non si ponga in una dinamica di sfida che comprende una ipotesi di rischio e di possibile fallimento.
In tutto questo deve essere superata la retorica dilagante della guerra che è stata ampiamente usata e che devia completamente rispetto a quanto sta succedendo e a ciò che necessariamente dobbiamo costruire. Che si rileggano i lavori di cura con il codice di guerra e non con quello dell’amore e del dono è qualcosa di assurdo. È incredibile infatti che il lavoro di cura venga letto come conflitto: sparisce la persona davanti e rimane solo la guerra contro il virus. Letteralmente, davvero, scompare la persona di cui ci si prende cura e rimane il virus contro il quale si sta lottando: questa è una cosa che colpisce. È davvero fondamentale riequilibrare questo approccio.