Alzheimer, ospite di famiglia
I vuoti nel ricordo, anche quelli che è normale sperimentare nel flusso del quotidiano, ti fanno spesso pensare all’ Alzheimer. Magari solo per via di un luogo comune della lingua. Capita di invocarlo invano quando non ti ritrovi più in tasca qualcosa che, ne sei sicuro, c’era un attimo prima. È l’Alzheimer, si scherza, ma sono pochi quelli che sanno di cosa parlano.
È solo quando hai a che fare da vicino con una persona che ha perso il filo della memoria, magari tua madre o tuo padre o un amico, e assisti impotente al suo smarrimento progressivo, e ti accorgi che anche la tua vita quotidiana sta cambiando giorno per giorno, è solo allora che hai bisogno di sapere veramente, di capire fino in fondo: cos’è il morbo di Alzheimer? Da cosa è originato?
Le risposte, anche quelle della scienza, sono ancora poche e in continua mutazione. E, a parte i sintomi, rimane ancora un mistero quell’escalation fatale che innesca “la progressiva perdita di memoria, poi di personalità e identità, poi la caduta finale nello stordimento proteico” (Don DeLillo in L’uomo che cade).
Le ipotesi mediche sono molte e diverse; esse individuano differenti fattori di rischio: ambientali, traumatici, tossici, infiammatori, vascolari, dietetici, persino genetici. Tutto e niente.
Il fattore sicuramente più rilevante e determinante resta però quello dell’età. L’insorgenza dell’Alzheimer si attesta tra i 60 e i 70 anni, ma l’età media della prima manifestazione sta diminuendo. Mentre l’unica vera forma di prevenzione conosciuta ed efficace è quella di impegnare il cervello con una frequente e intensa attività cognitiva, in grado di mantenere vivo e resistente il circuito neuronale.
Ogni volta che una persona si ammala d’Alzheimer, quasi sempre si ammala anche la sua famiglia. Ecco perché qualsiasi intervento di aiuto sul malato non può prescindere da un sostegno a tutto il nucleo delle persone che gli orbitano attorno. È molto significativo il fatto che l’Alzheimer si accompagni spesso anche a fenomeni di dissimulazione e di nascondimento, nel quale le famiglie, socialmente e culturalmente impreparate rispetto al morbo, tendono a tenere nel sommerso la loro vicenda e i loro bisogni, rispetto a cui hanno un vissuto di silenziosa sofferenza e di vergogna.
Ecco perché la cura e il supporto ai malati e alle loro famiglie necessitano, rispetto all’approccio attuale, ancora troppo clinico e farmacologico, di un’altra intelligenza sociale, di una visione inedita e di nuove prassi operative, sensibili ed efficaci. Una strada alternativa all’Oblio in cui l’Alzheimer spingerebbe intere famiglie.
In Perdutamente, romanzo autobiografico di Flavio Pagano, la rivelazione folgorante che si fa strada, pagina dopo pagina, nel vissuto dei protagonisti – una famiglia napoletana alle prese con l’improvviso insorgere dell’Alzheimer della nonna – è che “quando uno di noi si ammala di Alzheimer, l’esistenza di coloro che gli sono intorno non viene spinta verso gli interrogativi della morte, ma della vita. Perché l’Alzheimer è la malattia che più di ogni altra appartiene alla vita. Ne possiede tutta la follia, l’energia brutale e misteriosa, l’imprevedibilità. Rende concreta l’immaginazione e dissolve la realtà. Rimescola il tempo. Bisogna essere pronti a tutto, è vero, ma non solo al peggio. E non bisogna lasciarsi risucchiare dalle suggestioni del passato e del futuro. In mezzo c’è la cosa più importante: il presente. Dimenticarlo è come dimenticarsi di sé stessi.”