Lo sguardo che educa: sintesi di un percorso
Il lavoro sociale è un lavoro complesso, vario, che ha a che fare con le molteplici, infinite sfaccettature dell’esperienza umana. Per chi lavora in questo campo, quindi, è naturale e diffusa la sensazione di non arrivare mai, la sensazione che ci sia sempre qualche aspetto che sfugge, qualche competenza che non si padroneggia abbastanza.
Scatta così, e si perpetua, la ricerca di strumenti sempre nuovi per strutturare il proprio lavoro, di approcci e metodologie che possano guidare l’agire. A questa ricerca e a queste domande, AgenziaRES ha deciso di provare a dare una risposta partendo da una prospettiva nuova, per certi versi capovolta: non una formazione sul metodo, non una formazione sui test o sugli strumenti.
Una formazione sullo sguardo. Una formazione su cosa c’è dietro il nostro agire sociale ed educativo. Un percorso di filosofia dell’educazione e del lavoro sociale che possa aiutarci a guardare il nostro lavoro con occhi diversi, ad abbandonare certi schemi, ad approcciarci all’altro in modo nuovo. Perché se è vero che il mondo e la realtà cambiano a seconda di come li guardiamo, il peso del nostro sguardo diventa più forte e strutturante quando si posa sulle persone, soprattutto quelle più fragili, con cui lavoriamo: bambini, anziani, disabili, etc.
Abbiamo, quindi, creduto fondamentale fermarci a riflettere su come ci poniamo rispetto agli utenti che abbiamo di fronte. A condurci in questo percorso, come una sorta di Virgilio, abbiamo invitato Sergio Labate, professore di Filosofia Teoretica all’Università di Macerata, ma soprattutto, un professionista e uno studioso capace di coniugare i linguaggi e gli strumenti di riflessione ed analisi della filosofia con i problemi ed i contesti concretissimi del lavoro sociale.
Ne è scaturito un percorso di pensiero affascinante, a tratti arduo, ma sempre capace di portare una luce nuova su comportamenti, pensieri, modi di fare che ci caratterizzano. Siamo partiti da una riflessione sulle differenze tra sguardo e osservazione, che sembrano sbilanciati sui due cardini di oggettività e soggettività e che rappresentano i due fulcri di un dualismo tutto occidentale tra empatia e sapere. Come operatori tendiamo a soffrire la struttura e la potenziale rigidità dei protocolli osservativi, mentre sentiamo nella categoria dello sguardo la possibilità di ricomprendere, per quanto possibile, l’interezza dell’altro.
D’altro canto, però, riconosciamo nell’idea di sguardo il rischio di una distanza che si annulla e/o di una personalizzazione dell’intervento che può sfociare nell’arbitrio[1]. Solo la conoscenza può proteggerci da una deriva del genere e sono i protocolli a permetterci di tentare di costruire un sapere condiviso nelle equipe e tra professionisti. Un sapere che struttura il nostro agire e lo rende condivisibile e comunicabile agli altri, un sapere che ci permette di realizzare quegli strappi alla regola che fanno sì che il nostro intervento possa tagliarsi il più possibile su chi abbiamo di fronte, senza abusare del nostro potere di educatori. Si tratta di un “Sapere Alternativo”, deistituzionalizzato, informale, che contempla in sé la dimensione dei sentimenti: non si limita ad osservare, ma mette in campo lo sguardo, recuperando, quindi, la dimensione delle emozioni. È un sapere che non guarisce e che rinuncia all’ambizione di ricondurre tutti nei confini della “normalità”.
Da questa riflessione emerge una prospettiva completamente ribaltata rispetto a quella intuitiva secondo cui lo sguardo empatico è immediato, mentre l’osservazione è mediata dal sapere: riconosciamo, cioè, che è possibile guardare l’altro con empatia, accogliendolo in tutta la sua complessità, soltanto se e quando lo abbiamo prima conosciuto. Non è vero che l’empatia viene prima del sapere, ma è attraverso la conoscenza che si può costruire una autentica empatia.
Essa, allora, può essere definita come lo sguardo che accoglie senza guarire, uno sguardo sull’altro che non tenta e non si illude di salvarlo, ma, semplicemente, pur riconoscendone le fragilità, gli riconosce la possibilità di agire e la legittima, rendendola reale e “agibile”. Arriviamo così a guardare quelli che sono i nostri utenti come delle persone competenti: competenti non perché rispondono a certi standard, non perché considerate “normali”, ma perché tentano di dire la verità su loro stessi.
E quello dell’operatore, diventa allora uno sguardo, e non una tecnica valutativa, perché non cerca di normalizzare (o di misurare la distanza tra ciò che l’altro è e ciò che dovrebbe essere), ma lo riconosce nella sua essenza e gli permette così di liberarsi e di agire. Di fare a meno dello sguardo degli altri.
[1] Questa parte di riflessione si è nutrita del contributo di Adorno e Horkheimer nella loro “Dialettica dell’Illuminismo”, in cui riportano un’interessante lettura dell’episodio omerico di Ulisse alle prese con le Sirene.