Etnopsichiatria: il migrante non più vittima ma protagonista.
“L’ignoto si trova alla frontiera fra le scienze, là dove i professori si mangiano fra di loro. È in genere in questi interstizi mal condivisi che si trovano i problemi urgenti… È là che bisogna penetrare… Innanzitutto perché sappiamo di non sapere e perché abbiamo la visione nitida della quantità dei fatti”.
È con questa citazione di Marcel Mauss che Natale Losi ha dato inizio al suo intervento finalizzato a introdurre i partecipanti all’approccio etno-sistemico-narrativo di cui lui, con la sua associazione Etnopsi, è il creatore e promotore. Si era a Fermo, il 12 giugno presso la sala conferenze dell’Associazione Famiglia Nuova, e ad ascoltare c’era una platea affollata soprattutto da operatori del sistema dell’accoglienza, ma anche di persone interessate a lasciarsi affascinare da un approccio che propone di modificare in maniera sostanziale i principali paradigmi di cura del disagio mentale in pazienti che provengono da altri contesti culturali.
I capisaldi dell’intervento di Losi sono stati centrati appunto sulla consapevolezza di non sapere e di non poter applicare tout court un sistema di pensiero geograficamente collocato e prodotto (la moderna psichiatria occidentale) per comprendere fenomeni e manifestazioni che hanno caratteristiche culturalmente determinate. E determinate con grande distanza dai nostri sistemi di riferimento. Occorre quindi procedere con una sistematica operazione di decostruzione di questo sapere dato per assoluto e quindi smontare il processo di diagnosi. La diagnosi come elemento che allontana dalla verità in quanto si impegna a classificarla ponendola dentro categorie chiuse, invece che a comprenderla andandone a leggere tutti gli interstizi. La diagnosi che è stata generata da un sistema di pensiero e di classificazione che è valido per una parte molto minoritaria dell’umanità. Pensiamo ad esempio a come nel pensiero occidentale vi sia l’idea che il pensiero, l’anima, siano elementi esclusivamente umani; questo quando per la grande maggioranza delle altre culture, ogni vivente è portare di una sua anima. Questo quando per la maggior parte delle culture umane esiste un rapporto con l’invisibile che è estremamente più concreto e influente di quanto lo sia per la nostra; che incide nelle condotte umane e che può essere compreso con difficoltà e completamente travisato se osservato con le nostre lenti. Per curare una persona occorre quindi piuttosto fare in modo che i suoi sintomi possano ritrovare un contesto in cui acquisire significato.
Quindi, per ricostruire un rapporto, una forma di comprensione o quantomeno di agire sul malessere della persona straniera, la narrazione, la letteratura, divengono un grande strumento di lavoro. Uno strumento che introduce potenti elementi di ispirazione per una analisi della realtà o meglio delle percezioni di realtà. In particolare la fiaba. Losi ci ricorda di come fu Vladimir Propp ad identificare una struttura ricorrente in tutte le fiabe di qualsiasi cultura; un modello narrativo. Egli scoprì trentuno funzioni, conosciute come la sequenza di Propp, dove ogni funzione rappresenta una situazione caratteristica nella trama, soprattutto per quanto concerne i personaggi e i ruoli.
In questo modo possiamo rileggere l’esperienza migratoria come una vicenda fiabesca in cui il migrante assume un aspetto positivo e svolge la funzione di eroe invece che quella sempre assegnata di vittima. E questa diviene una lettura molto più fruttuosa e feconda di elementi archetipici sui quali è possibile innestare un lavoro. Anche perché – Losi ci ricorda – che il primo passo per aprire è sempre quello di assegnare delle connotazioni positive: senza queste non è possibile ottenere alcuna apertura.
Quindi dalle fiabe impariamo che sono sempre presenti in sostanza quattro assi tematici lungo i quali si svolge la vicenda: il rapporto tra le generazioni; il rapporto tra i generi; il rapporto tra gli umili e i potenti; il rapporto tra mondo visibile e mondo invisibile. È una frattura lungo queste linee che determina il malessere, che determina lo star male. Ed è quindi lungo queste linee che possono essere trovati degli “atti riparativi” che consentono di agire sulla frattura. E per farlo è necessaria una grande capacità di ragionare fuori dagli schemi consolidati, di inventiva: per la costruzione di ritualizzazioni che possano aiutare a costruire la simbologia utile a seguire questo percorso, a seguire questo itinerario narrativo. Per farlo con maggiore efficacia è opportuna la presenza di un gruppo di lavoro ampio e multidisciplinare, di un nucleo di sensibilità e di riferimenti culturali ampi ed alternativi, che possono aiutare a costruire un percorso narrativo in cui la persona bisognosa di cura possa individuare quegli atti riparativi che le facciano ricomporre le sue fratture.