Animazione di comunità: l’ignoto può diventare noto
“Cosa ti infastidisce del richiedente asilo?”
“Che tipo di risorsa possiamo essere per questa comunità?”
“Qual è l’oggetto di lavoro dell’operatore sociale?”
“Quanto la vostra associazione è disposta ad investire nel “fare comunità”?
Lo scorso 6 Luglio, durante il percorso formativo di Officina di Sociale Evoluto, i formatori Stefano Carbone e Christian Gretter ci hanno invitato a riflettere sul lavoro di comunità declinando le sfaccettature sottese alla capacità di mettersi nei panni di: ascoltare l’altro, le sue paure, la sua idea di futuro; accoglierne le richieste, senza contraddirle a priori, senza applicare giudizi di valore; riflettere sul bisogno di sentirsi parte di un gruppo coeso, spazialmente definito, fisico, riconoscibile, legato ad un passato che unisce; comprendere insieme le ragioni della sempre più marcata necessità di affermare la propria identità per differenza e contrapposizione.
Attraverso un approccio dinamico ed interdipendente, i partecipanti alla giornata di formazione hanno espresso la propria idea di comunità scegliendo parole chiave emblematiche: reciprocità, conflitto, risorsa, perdita di controllo, investimento, alleanze, apertura, mediazione, retorica.
Parole da cui si è aperto un dibattito sulla complessità dell’agire dell’operatore sociale chiamato ad uscire dai confini sicuri del proprio servizio e del proprio ruolo predefinito, a calarsi nel conflitto e gestirlo, con una presenza continuativa e regolare sul territorio facilitando connessioni in una dimensione al contempo micro e macro.
Un’azione che non può essere promossa in solitudine ma sentita in comune in quanto pone le sue radici nella relazione, nel coinvolgimento ed interazione, non formale ma sostanziale, in primis degli operatori coinvolti impegnati anche in servizi differenti, ed aperta a soggetti privati e pubblici, (“testimoni privilegiati”), per una lettura ed un agire congiunto tale da contaminare i confini individuali di ciascuno superando la logica spaziale del “mio” e del “tuo” in un’ottica inclusiva di coloro che sono ai margini.
Un percorso sociale che tiene in conto la lunghezza dei tempi di implementazione e quindi la necessità di procedere gradualmente, il rischio da parte dell’operatore di cadere nella frustrazione per il non riscontro nel breve periodo di risultati seppur positivi, richiede un forte investimento motivazionale da cui un dialogo continuo verticale con le istituzioni e gli attori del terzo settore; orizzontale, di vicinanza e prossimità con i cittadini.
Data la molteplicità dei soggetti coinvolti nel fare comunità, i partecipanti si sono confrontati nella seconda parte della mattinata sul valore e il tipo di comunicazione da adottare ovvero sull’ importanza di scegliere un linguaggio inclusivo adatto a informare, promuovere relazioni e connettere.
Un vocabolario di relazione in grado di rivolgersi a destinatari portatori di disagi differenti (migranti, disabili, disoccupati, anziani, etc…), ed espressivo tale cioè da prevedere una costante interazione del verbale con i linguaggi del corpo, della narrazione animata, delle arti figurative, del gioco, del teatro e della musica.
Un linguaggio che riconosce, valorizza ed attiva il potenziale (capitale sociale) di chi vive ai margini e che ci rimanda a chi noi siamo.