Nuove Generazioni 2017. Il bando di “Con i Bambini”
“Nuove Generazioni 2017”: è con questo nome che Con i Bambini impresa sociale (Soggetto attuatore del “Fondo per il Contrasto della Povertà Educativa Minorile) ha emanato un nuovo bando di finanziamento sul territorio nazionale. La richiesta è quella di presentare progetti “esemplari” finalizzati al contrasto della povertà educativa minorile e rivolti a minori con età tra 5 e 14 anni.
Senza entrare troppo nelle caratteristiche tecniche del bando – questioni importanti solo per coloro che hanno intenzione di partecipare e costruire una proposta progettuale – ci sembra interessante metterne in evidenza alcune caratteristiche: metterle in evidenza perché indicano una nuova linea di azione del sistema di politiche pubbliche e perché introducono elementi di innovazione che nei prossimi anni saranno sempre più rilevanti.
Anzitutto il soggetto che si occupa di gestire tale intervento. Siamo di fronte ad una società privata, che sorge su espresso mandato pubblico – specificamente per realizzare una delibera del governo per la lotta alla povertà educativa minorile – con la partecipazione unica di Fondazione per il Sud che è un altro ente di natura giuridica privata e che è partecipato da una serie di fondazioni bancarie. In sostanza un soggetto di natura privata che si incarica di realizzare una politica pubblica e che, anzi, viene espressamente costituito per questo scopo. Si tratta di una evoluzione che non esisteva fino a pochi anni fa, laddove le Fondazioni bancarie impiegavano i propri soldi nel sociale, ma facendolo in maniera alquanto frammentata e con scarsa rilevanza strategica. Negli ultimi anni invece abbiamo visto crescere significativamente tale ruolo e assumere contorni sempre più importanti: pensiamo al significato dell’intervento di Fondazione Cariplo rispetto allo sviluppo che ha caratterizzato la situazione milanese, al suo ruolo di traino dell’innovazione e della costruzione di progettualità innovative e sperimentazioni sempre più interessanti. Pensiamo al ruolo simile della Fondazione San Paolo per l’area piemontese.
In sostanza le fondazioni emergono come attori sempre più rilevanti di politiche pubbliche, laddove lo Stato progressivamente si ritira e lascia spazi scoperti e non presidiati. La sensazione è dentro questi processi siano possibili delle innovazioni e delle sperimentazioni di intervento che in passato non erano così probabili.
Il secondo tema che ci sembra rilevante è l’approccio strategico al problema. La povertà educativa affrontato non semplicemente sul versante dell’output, ma in un’ottica di sistema. Non ci si sofferma unicamente ad offrire nuove ed ulteriori lezioni scolastiche integrative dei curricula ordinari, ma si stimolano proposte che vadano a ragionare maggiormente sulle cause trasversali del problema e che quindi lo aggrediscano nei suoi differenti aspetti: la progressiva carenza di competenze specifiche; delle reti sociali di supporto sempre più deboli; una partecipazione alla vita collettiva sempre meno accentuata; la carenza di servizi di cura e di accompagnamento; un complessiva condizione di povertà economica che sta aumentando in maniera importante in determinate fasce della società. “La costruzione di presidi educativi duraturi e sostenibili – recita il bando – in grado di incidere significativamente e a lungo sulla condizione minorile, passa per il rafforzamento delle comunità educanti: le famiglie, la scuola, i singoli, le reti sociali, i soggetti pubblici e privati del territorio che, non sempre consapevolmente, hanno ruoli e responsabilità nell’educazione e nella cura dei minori”.
Il terzo tema è quello relativo ai soggetti presentatori che vengono individuati. In questa scelta sembra esserci una filosofia di intervento pubblico, significativa e che in qualche modo traccia dei percorsi per il prossimo futuro. Il capofila deve essere – regola importa dal bando – un’organizzazione di terzo settore. È obbligatoria la presenza nella partnership della scuola. L’ente locale è l’unico soggetto che ha la possibilità di essere presente in più proposte (ma al tempo stesso non è obbligatorio stia in nessuna). Questi tre semplici regole di conformazione della partnership dicono alcune cose essenziali, ci sembra. Che l’organismo di terzo settore è in condizione di assumere un ruolo centrale in un intervento di questo tipo e che è in condizione di farsi carico di coordinare l’intervento territoriale e la progettualità che ne consegue. Nell’anno dell’approvazione della riforma del terzo settore, ci sembra che si stia dichiarando che tipo di nuova presenza si chiede agli organismi di terzo settore: non più meri fornitori di prestazioni pubbliche; non più patrocinatori di micro-interventi locali; non più centrati esclusivamente sulla advocacy per specifiche categorie; ma davvero capaci di farsi carico e coordinare una politica pubblica. La scuola chiamata sempre più ad interagire con i soggetti territoriali in un’ottica di collaborazione e a smettere sia il proprio isolamento, sia la propria idea di primogenitura rispetto alle politiche per l’educazione. L’ente locale viene concepito come un soggetto che supervisiona e accompagna tali interventi: una funzione importante, ma che nella sua non obbligatorietà vuole significare – almeno così ci sembra – che la centralità è nella società che si auto-organizza.
Il quarto tema è quella della valutazione di impatto. Si tratta dell’altro soggetto che deve essere obbligatoriamente presente nella partnership e dell’obbligo a svolgere tale tipo di attività. È quella stessa valutazione di impatto che è stata chiamata ad essere necessariamente presente nella rendicontazione sociale degli enti di terzo settore – secondo quanto previsto dalla riforma – e che in questi ultimi anni ha conosciuto uno sviluppo nelle pratiche e nella riflessione. La spinta di strumenti di finanza sociale che provengono in particolare dal mondo anglosassone e che stanno divenendo uno strumento di finanziamento di interventi anche nel nostro contesto nazionale; pensiamo ad esempio ai Social Impact Bond. Crediamo che ci sia ancora parecchia strada da fare rispetto alla costruzione e utilizzo di strumenti davvero efficaci di valutazione di impatto e che questa abbia anche oggettivi limiti quando ad essere studiati sono fenomeni così multidimensionali e complessi come ad esempio la povertà educativa.
Però il fenomeno ci sembra evolutivo sotto due differenti aspetti.
La necessità di dimostrare che gli interventi sociali devono avere un impatto (ed un esito) sui contesti e sui problemi rispetto ai quali vengono costruiti. Occorre un cambio paradigmatico rispetto ad un modo di operare l’intervento sociale che, appunto, pone centralità sull’azione, sul processo, sull’erogazione, e non si interessa affatto degli esiti che questa azione produce; in quale misura tale azione effettivamente produca conseguenze di maggiore benessere o di maggiore qualità della vita, sulle popolazioni coinvolte. Qualunque lavorator sociale percepisce come sia un salto di non poco conto.
La necessità di analizzare bene l’albero dei problemi, quando si vada a progettare un intervento, cercando davvero di comprendere quali ne siano le cause e le manifestazioni e di agire in maniera coerente con questo disegno. Questo permetterebbe un altro cambiamento rilevante che è quello di introdurre troppo spesso interventi standardizzati e azioni che si ripetono e poco cercano di comprendere quali siano le specifiche del contesto e del bisogno che si aggrediscono e che quindi possono risultare inefficaci e per certi versi “ingannevoli”.
Al di fuori di qualunque reale efficacia cognitiva della valutazione di impatto, crediamo vi sia una efficacia “epistemologica” immediata che proviene dalla sua introduzione.