mediterranea

Mediterranea

Abbiamo chiesto ad Alessandro Metz, nostro collaboratore, ma soprattutto “armatore sociale” della nave Mar Ionio, di raccontarci il progetto Mediterranea.

Buona lettura.

Mediterranea è un mare declinato al femminile, capace quindi di accogliere.

Mediterranea è un viaggio che abbiamo intrapreso in molti e diversi, spinti dal bisogno di salvare la nostra umanità e quel residuo di civiltà che ci rimane. Salvare e salvarci, questo è quello che vogliamo e dobbiamo fare, questo è quello che proviamo a fare.

Ognuno di noi in questo viaggio sta facendo qualcosa di diverso e più grande di quello che è normalmente, ma la normalità non è di questi tempi. Non è normale essere costretti a scappare dalle proprie case, dai propri Paesi. Non è normale mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari, nel tentativo di vivere l’unica possibilità di mantenersi in vita e avere ancora una prospettiva di futuro.

Ma ancora meno normale è che Paesi come il nostro, che ha vissuto una migrazione massiccia e disperata nel corso delle diverse epoche storiche, non sia capace di accogliere e cogliere quella ricchezza che è sempre venuta dai popoli in movimento e dalle culture che portavano con sé.

Abbiamo comperato una nave e l’abbiamo messa in mare, sembrava impossibile ma abbiamo usato la forza dei deboli che quando si mettono assieme spostano le montagne, perché non potevamo fare diversamente. Le statistiche ci dicono che in media otto persone al giorno muoiono nel tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo e arrivare sulle nostre coste. Morti che vengono “festeggiati” dalla retorica che ci sta governando come otto problemi in meno nel nostro Paese. Per noi sono otto sofferenze in più al giorno di cui dobbiamo farci carico.

Bisogna decidere, o si sta con chi festeggia quelle morti oppure si sta con chi compera una nave e solca quei mari a portare soccorso. Ancora una volta bisogna parteggiare, ancora una volta partigiani.

Nella retorica in voga la “soluzione” è non facciamoli partire, non moriranno.

Quello che ci muove, tutti nessuno escluso, è il desiderio. Il desiderio di migliorare la qualità della nostra vita, vale per noi, vale soprattutto per chi vivendo condizioni di guerra, violenza, sopraffazioni e assenza di acqua e cibo vede quel desiderio come necessità e urgenza. Desiderio che si fa impellenza e che niente può fermare, non muri, non confini non i rischi da correre nel viaggio e meno che meno i porti chiusi.

Non siamo una ONG, Organizzazione Non Governativa, e non lo diventeremo. Siamo una piattaforma di associazioni, forze politiche, imprese sociali, personalità pubbliche e meno note, una piattaforma aperta e inclusiva. Abbiamo bisogno di altri, di molti. Ci siamo uniti per dare vita ad una ANG, Azione Non Governativa, che ha bisogno di sostegno e supporto per poter avere continuità. Il chi ci paga è presto detto, quelle migliaia di persone che decideranno di essere Mediterranea sostenendola nelle diverse forme possibili, prima fra tutte donando un contributo per quelle miglia che ci separano dall’essere veramente “società civile”.

In tutto questo penso che non sia strano che un operatore sociale diventi l’armatore di questa nave, nonostante sia la cosa più distante da me e da quello che pensavo rispetto al mio futuro. Un operatore sociale si trova proprio dove le contraddizioni maggiormente si esprimono, è quella persona che dovrebbe fornire strumenti di emancipazione dalla condizione di bisogno e di necessità, è un lavoro che mi ha fatto sempre stare nei contesti di fragilità e difficoltà esistenziale. Il mar Mediterraneo è il posto in cui non vorrei, non vorremmo stare, ma è proprio il posto giusto in cui esserci oggi, per vedere, raccontare denunciare e se necessario anche salvare. Salvare non tanto gli altri, quanto quel residuo di umanità che ci rimane, quella ostinata voglia di non trasformarci in “controllori sociali” ma continuare nell’operare affinché l’emancipazione dallo stato di bisogno sia possibile.

Franco Basaglia, dopo l’approvazione della legge 180 che determinava la chiusura dei manicomi, quarant’anni fa, disse: Probabilmente i manicomi li riapriranno, ma noi siamo riusciti a chiuderli, abbiamo dimostrato che si può fare.

Ancora una volta siamo allo stesso punto e da lì ripartiamo. Dimostrare che si può fare, o almeno provarci.

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