Intervista a Roberto Leonardi
Questa settimana per la rubrica #testimoni abbiamo intervistato Roberto Leonardi, segretario generale di FITS (Fondazione per l’Innovazione del Terzo Settore) e docente a contratto in “Progettazione e innovazione sociale” al corso di studi in Sociologia dell’Università di Trento.
Roberto è anche un amico, che abbiamo incontrato in varie occasioni di formazione anche all’interno della nostra cooperativa per promuovere processi di innovazione. Autore e animatore di alcune delle più interessanti esperienze di innovazione di impresa sociale nel nostro Paese, lo possiamo considerare uno dei massimi esperti e studiosi italiani su questo tema.
Ho seguito un seminario online nel quale, rispetto ai processi di progettazione, ponevi l’accento sull’importanza del considerare l’area di rischio e sul tema del coraggio. Ti va di spiegarci meglio?
Volentieri. Quello che occorre comprendere è quanto il processo di progettazione sia di fatto un processo vitale. E come tale sia un processo che necessita di essere assunto appieno e con coraggio. Con il coraggio necessario a stare dentro situazioni non lineari e che ci espongono all’incertezza e al rischio.
Vi consiglio la lettura di Benasayag ed in particolare “Funzionare o esistere”. Se volete occuparvi seriamente di progettazione dovete assolutamente leggere questo agile libriccino.
“Esplorare le proprie possibilità, assumere rischi, correre dietro a molte lepri, abbandonarsi con passione, scottarsi, tornare indietro… Non una linea retta, non un bilancio costi/benefici”
Questa è la funzione persa dal sistema cooperativo: completamente persa, anche da molti cooperatori. Questa roba non la trovo più ed è per questo che vado sempre di più a cercare il confronto con i giovani ragazzi che sono nelle università. Perché quando ti consolidi troppo, parti sempre con il bilancio costi/benefici e quindi i progetti della cooperazione sono sempre meno interessanti.
Ma per costruire buoni progetti dobbiamo anche farlo coltivando le persone. Occorre lavorare sulle persone e sui gruppi. Come si muove il gruppo e quale è la sua dinamica? Non possiamo prescindere dalla dinamica delle persone nel gruppo. Per tornare a fare progetti innovativi e davvero sociali occorre allevarla questa tensione nelle persone. Occorre quindi lavorare molto sul tema del gruppo consentendo di fare esperienze comuni ed esperienze introspettive.
Non sto parlando di supervisione o di fare giochi di dinamica di gruppo, si tratta di invece di recuperare la possibilità di esplorare le proprie capacità: la capacità di assumere rischi anche per il gruppo, la possibilità di osare anche oltre e quindi all’interno di un terreno in cui siamo completamente fuori dalla zona di comfort. Un abbandonarsi che abbiamo perso. Ormai le organizzazioni si sono posizionate su delle linee rette, corrono su una struttura che le rende prevedibili. Non è solo invecchiamento, è un incrudimento.
Cosa può fare l’impresa sociale per recuperare questa attitudine?
Devi cercare di lavorare per progetti anche dentro l’organizzazione. Anche le persone nell’organizzazione devono lavorare per progetti, essere ingaggiate per progetti e non per mansione/funzione. Lavorare sulle situazioni: occorre studiarle, occorre studiare. Ormai si studia poco o anche per niente, nelle cooperative. Così diminuiscono anche gli stimoli creativi, ispirazionali.
La mia ambizione è che la cooperativa sia un luogo dove apprendere. Sia una piccola università; deve essere un centro di competenze. Deve essere fonte per le persone, permettere di approvvigionarsi di conoscenza. Allora significa che l’organizzazione è capacitante. Un luogo nel quale studiare e apprendere.
La cooperativa deve quindi essere un luogo nel quale la gente ha la possibilità di progettare. È assurdo che lo faccia Google e che non lo facciano le cooperative. Lì c’è un giorno alla settimana in cui le persone sono pagate per pensare per progetti. Occorre costruire luoghi che siano fonte di sapere e conoscenza: e che lo siano non solo per i cooperatori, ma che siano ben aperti verso il mondo esterno. Dovresti avere una sorta di museo: un luogo in cui posso spiegare ad un bimbo di 10 anni cosa è un’impresa sociale e perché. Se non fai e non sai fare questo e ti chiudi dentro, sei un soggetto rattrappito. Manca una narrazione del lavoro sociale, dell’azione sociale.
Per questo è davvero fondamentale. È da questo che deriva la scelta che feci a Perugia con ABN di avere una sede che ospita altre organizzazioni e altri soggetti che convivono al suo interno. È da tale condivisione e coabitazione che sorgono stimoli e che sorge una spinta sociale.
Ma dentro questo progettare, cosa c’è che lo renda davvero efficace?
Il progetto sociale deve avere un impatto ben descrivibile e ben misurabile. E fondamentale è l’insegnamento gandhiano che i mezzi devono essere rigorosamente coerenti con il fine. “Abbiate cura dei mezzi ed i fini si realizzeranno” (Gandhi). E questa cosa non dobbiamo sbagliarci a valutarla come idealizzante e teorica: è invece concretamente operazionale, ha molto a che fare con l’execution del progetto. Tanto che la cura dei mezzi deve essere così ossessiva che se ce ne occupiamo davvero il fine si realizza quasi da solo.
Quindi l’impresa può essere un mezzo per risolvere un problema sociale. Essa lo fa con una visione binoculare: da una parte la conoscenza dei problemi e la capacità di individuare soluzioni; dall’altra la conoscenza del mercato. Da qui derivano i pilastri della sostenibilità di un progetto: la capacitazione degli stakeholder; la pluralità delle fonti di ricavo; la capacità di aggregare e creare fiducia; le capacità esecutive di controllo e di misurazione; l’appropriatezza dei mezzi; una soluzione innovativa.
Conosciamo e studiamo poco i fenomeni. Invece per fare nascere idee dal mercato occorre che accumuliamo conoscenza. Occorre poi una capacità di attivare nuovi paradigmi.
Le idee invece che nascono da un problema devono nascere dalla attitudine ad abitare un problema. E su questo le cooperative sono poco abituate: fanno dichiarazioni di territorialità, ma non abitano veramente i problemi e i territori. Abitare un problema non è un semplice conoscere il territorio. Significa studiarlo e viverlo tramite interviste, gruppi focus, etc. Quanto spesso apriamo servizi e intervistiamo persone che quel problema lo vivono?
Noi invece ripetiamo prassi che sono sempre quelle. Senza conoscere cosa sia cambiato. Nemmeno mai ci facciamo domande su come altrove quel problema viene affrontato altrove. Non costruiamo e non stocchiamo conoscenza. Eppure con le tecnologie attuali sarebbe molto facile produrre materiali che ci consentano di stoccare conoscenza. Ma questo lo fai se apri l’organizzazione. Se costruisci promiscuità, ibridazione, confronto. Questo mi consente di vedere i problemi da molti differenti punti di vista.
Il problema è che troppo spesso le nostre cooperative si occupano solo di economia distributiva; non fanno in nessun modo economia produttiva.
In questa fase, dall’esperienza di questi due mesi, giungono nuove lezioni e apprendimenti per le imprese sociali?
In questo momento le imprese sociali si lamentano della poca attenzione nei loro confronti. Io invece ho chiara l’urgenza che vada fatto un atto di apertura storico. Un atto di svecchiamento storico. Quella che non emerge è un’idea. Emergono atti politici e di denuncia per proporsi a gestire misure. Non emerge un disegno che descriva una centralità dell’impresa sociale a risolvere i veri problemi.
L’impresa sociale dovrebbe oggi essere il centro di competenze intorno al quale gira tutto il sistema. Torno a dire che dobbiamo fisicamente aprirci. Tutto quello che si è sedimentato in questi anni deve adesso emergere ed essere promosso. Noi potremmo guidare il viaggio verso una forma nuova di capitalismo. Il problema, quando diciamo che si sono dimenticati di noi, è che in realtà ci siamo dimenticati noi di noi. Noi dovremmo nutrire l’immaginario del mondo prossimo; indicare la pista.
Altrimenti il rischio è che siamo una categoria: ma noi non siamo una categoria, noi siamo un modello economico. Vedi quindi ad esempio il documento prodotto dalla Business Roundtable, tramite il quale soggetti importanti stanno dicendo che non vogliono più fare investimenti senza che vi sia impatto sociale. Ed invece che essere noi, quelli che a questi soggetti indicano la strada per costruire impatto sociale, stiamo lasciando il posto a grandi consulenti che in vita loro non hanno mai avuto esperienze sociali, non hanno mai pulito un culo. Che è il primo pilastro dell’impatto sociale.
Ne segue che la comprensione del fenomeno costoro ce l’hanno ma per sentito dire. Chi invece ha acquisito competenze e idee direttamente dalle persone e dai loro guai adesso avrebbe la responsabilità di strutturarle.
La questione è che, in questa fase, invece di fare tutte queste commissioni, avrebbero dovuto dire al sistema delle imprese sociali – 1 milione di lavoratori e 5 milioni di volontari – dateci una mano a lavorare nelle città, vi ci mettiamo due soldi. Date una mano alle forze dell’ordine, ma dal vostro punto di vista, cioè usando le vostre competenze e approcci; questo non è avvenuto perché non siamo un interlocutore vero, lo siamo molto parzialmente. Diventiamo fortissimi solo se ci apriamo facendoci riconoscere come un giacimento di conoscenza.
Quando le imprese sociali cominceranno ad organizzare un tè del giovedì in cui si parla di un guaio del proprio territorio e ci si confronta insieme a soggetti esterni: noi dovremmo essere gli attrattori di una conoscenza intorno alla quale possiamo dare contributi significativi in quanto si tratta di oggetti che conosciamo.
L’impresa sociale è uno strumento trasversale, un modello per guardare i fenomeni umani da un’altra prospettiva. Quindi costruire pensiero innovativo in epoca COVID non sono sicuro sia mettersi a produrre mascherine; quello da cercare è una vera modificazione della visione. Per questo in precedenza citavo l’esperienza di LandLease sull’area dell’ex Expo di Milano che pubblicherà un bando da 250 milioni con clausola sociale: il più grande appalto di questo tipo con il più evidente impatto sociale possibile. Mai fatta nella storia del nostro Paese. Un piccolo gesto che determina un impatto enorme.
Ma non ci accorgiamo in generale delle nostre potenzialità. Ad esempio trattiamo il servizio civile in modo molto burocratico. Al massimo se va bene ti do un po’ di letteratura sul tema della cooperazione. Occuparsi di servizio civile sarebbe invece una occasione straordinaria di ingaggiare ragazzi in veri progetti, partecipandoli. Queste cose non possono più essere fatte così: meglio piuttosto smettere di farle.
Ci sono in questa fase elementi di situazioni virtuose, capaci di altro rispetto al panorama complessivo?
Noi abbiamo organizzazioni attrezzate per cogliere le mele basse. Non sono capaci di andare sulla mela alta. Non abbiamo organismi attrezzati sulla creazione di valore. I processi di cui parlavo prima sono processi di creazione di valore, non sono processi di coccolamento del socio. Abbiamo capacità di stare sulla mela bassa con grandi cooperative che rispondono ad esempio alla necessità di gestire anziani in RSA facendo dei business plan perfetti, sapendo che 120 è il numero giusto per rendere economicamente interessante il business e stop. Si industrializzano così sulla mela bassa: siamo nell’ambito della economia sociale distributiva: mela bassissima, in quanto fondata sull’appaltistica e sulla mera gestione di una situazione dove il beneficiario non è mai un pagante. Questa è la mela più bassa in assoluto. Perché tu devi addomesticare il pagante per stare tranquillo: essere quelle che Don Ciotti chiama holding di servizi di braccia a buon mercato per l’ente pubblico.
Mi sembra ci siano pochissime iniziative virtuose nella cooperazione. Qualcosa di più vedo da alcune start-up a vocazione sociale, con dei ragazzi che buttano un sacco di ore su idee progettuali innovative e a volte strampalate. Ieri ho conosciuto due ragazzi che hanno presentato un progetto che riguarda un navigatore per persone con handicap. Un navigatore che è anche una community. Pur strampalato c’è un’idea sulla quale sono state investite ore di tempo, di pensiero e di entusiasmo: risorse volte alla creazione di valore. Ma su questi temi la cooperazione è del tutto assente.
La questione è che quando lavori sulle mele basse lavori sull’urgenza. Non cerchi mai di creare nuovo valore. Per fare questo occorre scatenare attività progettuale; per fare questo occorre disporre di persone, ore e fare qualche investimento. Mi interesserebbe capire, la tua cooperativa se riesce a prendere i 25mila euro del fondo anti-COVID oppure diciamo 100mila di un investimento garantito, in cosa li investe per creare valore? Una possibilità è quella di usarli per ripensare la sua struttura in maniera finalizzata alla creazione di valore: predisporsi a lavorare sulle mele alte.
La questione che non si coglie è che la creazione di valore avviene molto in anticipo. Vale a dire che le azioni di creazione di valore sono di gran lunga antecedenti al momento in cui si scatena il business. Se non mettiamo in gioco un processo di questo tipo, però non arriveremo mai davvero a creare valore, a fare pensiero progettuale, a produrre scenari. La domanda è quanto investirete nella strategia di creazione di valore piuttosto che nell’attività di sostentamento della cooperativa? Se investiamo zero, ne segue che non saremo mai in condizione di creare davvero nuovo valore per il nostro territorio. Quindi rimaniamo sulla mela bassa, punto.
Eppure sembrava che alcune esperienze virtuose ci fossero nella storia dell’impresa sociale italiana. Tali anche da proporre casi scuola.
Il mondo della finanza internazionale ha costruito il più importante esempio di Social Impact Bond in relazione all’esperienza di superamento della recidiva per i detenuti del carcere di Peterborough. Parliamo di un investimento limitato e per un gruppo di 100 detenuti ai quali hanno dato un appartamento e fatta un po’ di agenzia del lavoro. Un progetto così semplice la nostra impresa sociale lo fa – come si dice – di rinterzo.
Il Posto delle Fragole che citavate ha realizzato una cosa spaventosa in una condizione di mercato complicatissima. Fare ristorazione è qualcosa che io sconsiglio sempre a qualunque impresa sociale e su questo cito l’enorme quantità di fallimenti di chi ha provato a fare questa cosa. Quello non è un mercato cooperativo. La cooperativa è una struttura industriale che male si adatta al ristorante che è invece una struttura artigianale: essa è più adatta a gestire mense. Chi ha fatto quella roba è come se avesse scalato l’Everest con le infradito. Costoro hanno avuto lo slancio di fare questo tentativo e di crederci portandolo avanti fino in fondo.
Noi oggi avremmo bisogno di tornare a quello slancio lì. Avremmo bisogno di saperlo raccontare e narrare e poi anche provare a replicarlo. Si tratta di ripensare il modello di assistenza e trasformarlo secondo nuovi paradigmi. Si tratta di andare a caccia di mele alte e altissime.
Invece abbiamo ormai una deficienza strutturale rispetto a questa dimensione di creazione di valore; siamo rattrappiti, come già detto. La questione è che nelle cooperative abbiamo magari una governance anche ben formata, ma sotto abbiamo un livello medio di operatori che se va bene hanno letto una volta la 381. Che magari hanno fatto qualche studio strutturato in università ma non sono stati mai coinvolti in dimensioni di progetto. Bisogna invece chiamare gente che viene da fuori ad offrire conoscenza.
Ad esempio abbiamo fatto l’anno scorso un progetto sulla canapa industriale nel quale abbiamo coinvolto 70 agricoltori con i quali abbiamo ragionato su una sorta di distretto della canapa. E dobbiamo divenire capaci di tornare ad aggregare soggetti differenti con i quali prevedere sviluppi e opportunità. Dobbiamo essere lievito. Serviamo solo a questa condizione: costruire dei progetti che abbiano davvero un impatto sociale. Quando parlo di centro di competenze parlo di un nucleo di persone che sono capaci di tirare dentro l’impresa sociale altri soggetti, persone, capacità, idee. Dobbiamo alzare in continuazione delle palle, sulle quali chiamiamo a giocare persone ed operatori differenti.
Lavoriamo con le persone, va bene, ma non serviamo a un tubo se non facciamo in modo di avvicinarle alle altre persone.