Decreto Salvini sull’immigrazione: una riflessione
“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge” Art. 10 della Costituzione
Da alcuni giorni si sta discutendo attorno alla bozza del nuovo Decreto Immigrazione proposta dal Ministro Matteo Salvini. Quanto emerso fin’ora preoccupa molto sui possibili stravolgimenti del diritto d’asilo e protezione internazionale dei profughi e dei migranti. Il rischio, da quanto ci è dato sapere dalle anticipazioni emerse sul nuovo decreto, è che l’Articolo 10 della Costituzione venga messo in seria discussione.
Ovviamente si sta ancora parlando di indiscrezioni, bozze e prime anticipazioni ma il senso generale appare già chiaro: accogliere sempre meno e togliere diritti a chi è già presente nel nostro Paese; chiudere l’esperienza dello Sprar; riportare tutto all’interno dei “Centri di Accoglienza Straordinaria”; eliminare la protezione umanitaria; in poche parole togliere diritti di cittadinanza a una fascia sociale della nostra popolazione e riportare un numero importante di cittadini allo stato di clandestinità.
Uno dei punti cardine di tutto il decreto è quello che sta alla base della filosofia di tutta questa impalcatura, la possibilità di revocare la cittadinanza a fronte di reati commessi da un cittadino se proveniente da un altro Paese. Il significato è chiaro: una persona che arriva nel nostro paese non potrà mai ambire ad essere veramente un cittadino italiano, vivrà sempre la spada di Damocle dell’essere un cittadino “dimezzato”.
Un cittadino italiano può commettere i peggiori crimini ma non potrà mai vedere revocata la sua cittadinanza, avrà ovviamente il suo iter giudiziario e sconterà la sua pena se ritenuto colpevole, non sarà così per chi alla cittadinanza italiana ci arriva nonostante sia nato in un altro Paese.
Dal punto di vista tecnico giuridico vedremo nelle prossime settimane l’evolversi del Decreto, la sua approvazione e il risultato finale del dispositivo. Diventa evidente però che la procedura del decreto, cosa ben diversa dal percorso di una legge, vive nel suo essere “provvedimento di urgenza” quindi approvato dal Consiglio dei Ministri e poi ratificato entro 60 giorni in Parlamento. Significa annullare il dibattito parlamentare, fatto anche di audizioni delle associazioni e dei portatori di interesse, significa soprattutto non avere una discussione pubblica fuori e dentro le aule parlamentari.
Stesso meccanismo lo avevamo già visto nel momento in cui i ministri del precedente governo, avevano prodotto i decreti Minniti – Orlando, ratificati poi in legge senza dibattito e discussione.
Sulla pelle delle persone migranti si afferma quindi il fatto che si possa sempre agire d’urgenza senza un ragionamento ampio e chiaro su cosa significhi oggi migrare, cosa comporti il dover fuggire dal proprio Paese, l’importante, sembra, produrre sempre nuovi “nemici” da dare in pasto al malessere sociale. Si evita in questo modo di parlare di accoglienza, e cosa significhi veramente questo termine, si considera il diverso sempre e solo un problema di ordine pubblico e non una persona con diritti esigibili, civili sociali e politici.
Se verranno confermate le premesse di questo decreto avremo sempre più strutture di “contenimento”, non solo i Cpr ex Cpt e ex Cie, ma tutte le strutture di “accoglienza” diventeranno dei mega contenitori il cui unico ruolo degli operatori sarà quello di mero controllo, facendo saltare qualsiasi percorso di inclusione sociale che, nonostante i molti limiti, in questi anni in diverse realtà e situazioni avevano prodotto sperimentazioni interessanti e innovative.
Si torna indietro, o meglio si fa un passo avanti verso quel precipizio che si sta avvicinando sempre più, c’è tanta voglia di controllo e repressione, basti guardare ai diversi decreti che abbiamo visto in questi mesi. Il Daspo urbano, fatto dal governo Gentiloni, così come il decreto sugli sgomberi delle occupazioni abitative, dell’attuale governo Salvini – Di Maio, vanno nella stessa direzione e stanno definendo un “combinato disposto”, come si dice nelle aule legislative, che prevede una situazione sempre più critica e difficile e che trova una risposta facile: la guerra va fatta ai poveri e alle diversità e non alla povertà e alle diseguaglianze.
In tutto questo come operatori sociali, come cooperative sociali, non possiamo permetterci il lusso di non vedere e fare finta di niente. Il nostro ruolo è già scritto e definito: per le leggi Minniti – Orlando era quello di essere equiparati al pubblico ufficiale; nel decreto sgomberi di Salvini quello di essere dei delatori utili alle procedure di sgombero; nel decreto immigrazione quello di diventare una sorta di “kapò” nei mega centri di “accoglienza”.
Non abbiamo molte alternative, o essere complici di questa deriva oppure essere capaci di rappresentare un’altra visione di mondo e di pratiche. I tempi sono difficili ma difficilmente possiamo sottrarci a questo quesito. Dobbiamo decidere quale ruolo abbiamo e vogliamo avere in questa società e quale senso debba ancora avere l’essere operati sociali, essere cooperative sociali.
L’articolo 1 della legge 381 del 1991, legge che disciplina la nascita delle cooperative sociali, recita: “ Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”. Se questo continua ad essere vero è il momento in cui la cooperazione sociale “batta un colpo”. Prima che sia troppo tardi.